“Corazones solitarios. Gentiluomo educato, professionale, di Quito. Mi piacerebbe incontrare la mia anima gemella”.
“Questo annuncio è per te, mia signora. Sono un uomo fedele, simpatico, tenero, romantico, con un grande cuore”.
“Cerco donne tra 29 e 45 anni”.
Era il primo giorno del viaggio in nozze, nel dicembre del 2013, e per ambientarci in Ecuador avevamo iniziato con una tazza di caffè e uno sguardo ai giornali locali. Ci siamo imbattuti così nella rubrica sentimentale Corazones solitarios. Mi è tornata in mente oggi pensando a quanti modi ci sono per essere innamorati e cercare l’amore, più romantico, più pragmatico, più cavalleresco, più moderno.
Allora, presi dalla luna di miele e dal fascino coloniale di Quito, vedevamo l’amore dappertutto (ancora non c’era Piccolé a boicottare i nostri slanci di romanticismo). Rileggo il diario di viaggio e mi sento di nuovo lì tra le canzoni strappalacrime sparate a tutto volume sugli autobus, la coppia di anziani in vestiti tradizionali che passeggiava per mano mangiando un gelato rosa confetto, i ragazzetti con il cappello di Babbo Natale che si baciavano in piazza. E poi noi sposini, sistemati in una mansarda in legno all’ultimo piano dell’hotel San Francisco, tra i tetti della città vecchia e le cime innevate che li sfioravano.
Per strada si vendeva di tutto, soprattutto gelatine alimentari fosforescenti, gelati dai colori fluo, frutta ma anche rimedi miracolosi contro l’acidità di stomaco che il farmacista – dal suo banchetto al mercato – decantava con un megafono. Esposte nelle vetrine come oggetti qualunque c’erano anche bare di ogni forma e dimensione. E andavano per la maggiore, a pochi giorni dal Natale, corone argentate e vestitini per il bambinello del presepe, come se fosse stato un bambolotto. Ogni famiglia avrebbe addobbato la sua statuetta e poi l’avrebbe portata in processione.
Noi non abbiamo assistito a queste processioni perché il giorno di Natale eravamo in una fattoria in mezzo al nulla, l’Hacienda Mortinos, nel parco del Vulcano Cotopaxi, tra lama, cavalli e condor. Siamo stati lassù solo un paio di giorni, il tempo di una passeggiata fino al ghiacciaio e, il giorno dopo, di una cavalcata nei dintorni, ma eravamo così lontano dal resto del mondo – non funzionava nemmeno il telefono fisso della casa che ci ospitava – che è sembrato di staccare completamente.
Da quel momento in poi è come se fossimo finiti in un’altra dimensione, un po’ magica. La tappa successiva del viaggio ci ha portati sulle Ande, fino al cratere Quilotoa, una laguna verde smeraldo circondata da villaggi indigeni dove pochissime persone parlano lo spagnolo, ci si spostava a piedi tra un paese e l’altro e l’ultima moda prevede, per le ragazze, lunghissime trecce avvolte in stoffe colorate, un cappello di feltro blu con una piuma di pavone, un maialino o un agnello al “guinzaglio” e – nonostante le strade accidentate e i percorsi chilometrici – tacchi alti.
Sono le terre del Condor, un dio buono che, secondo una leggenda, si è innamorato di una pastorella che è scappata con lui sfuggendo a una famiglia crudele. Noi dobbiamo aver conosciuto una discendente della protagonista della storia, una bambina di 8-10 al massimo che pascolava dei maiali canticchiando e che ci ha aiutato a ritrovare la strada una volta che ci siamo persi.
L’appuntamento più importante qui era il mercato settimanale del bestiame, a Zumbahua, dove si vendono polli, pecore, lama, maiali, ogni genere di cibarie e articoli di ferramenta. Abbiamo ritrovato tra i banchi quasi tutte le persone che avevamo incontrato nelle nostre camminate dei dintorni. Così abbiamo potuto sfoggiare un po’ del vocabolario Quachua che avevamo imparato nel frattempo grazie alla pazienza di Manuel dell’Hostal Chukirawa, il nostro ospite. Per esempio buongiorno si dice Napaykullayki e grazie Yusulipayki, facilissimo.
Ci è un po’ dispiaciuto lasciare le Ande per scendere verso la sierra, per festeggiare il capodanno a Cuenca, una bella cittadina coloniale (patrimonio dell’Umanità dell’Unesco) che – dopo i giorni di Quilotoa – ci è sembrata una vera metropoli. Poi però, per l’anno nuovo, la festa è stata incredibile con enormi falò. A ritmo di salsa ogni famiglia bruciava fantocci con la faccia delle persone più odiate o semplicemente famose dell’anno vecchio, politici, calciatori, star della tv o personaggi di film e fumetti. Inoltre ogni rione costruiva carri scenografici (c’era un concorso per quale fosse il più bello) e a mezzanotte bruciavano anche quelli con fiamme alte fino a 5-6 metri, tra petardi e fuochi d’artificio. Le macchine passavano vicinissime ai falò e qualche ubriaco provava a saltarli. Alla musica a tutto volume si univano le sirene di polizia e pompieri, che correvano da una parte all’altra per evitare che la città prendesse fuoco (o forse per non perdersi nessuno dei festeggiamenti?). Noi eravamo senza parole per lo spettacolo, innamoratissimi dell’Ecuador (e ancora non avevamo visto le Galapagos e l’Amazzonia, ma questa è un’altra storia).
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Ecco come sono andate le cose:
3 commenti
Non la conoscevo. È una canzone stupenda, grazie 🙂
Questa registrazione è molto vecchia e anche non buonissima l'esibizione ma visto che parlavi del Condor…questa canzone è bellissima.
https://www.youtube.com/watch?v=nPZviFwd194