Piccolé, da bambina di città, aveva poche certezze sulla vita di campagna. Quasi tutte sono crollate nei giorni in cui siamo stati ospiti di una fattoria alle Seychelles. Il proprietario della nostra guesthouse a Praslin aveva campi di vaniglia e qualche animale. Non si trattava però di mucche, pecore e galline ma di tartarughe giganti, che trattava come animali da compagnia, e pipistrelli, che allevava in una specie di pollaio.
L’incontro tra la cultura africana, asiatica ed europea emergeva, con effetti spesso incredibili, in quasi ogni aspetto della vita alle Seychelles. Succedeva così che il monumento principale della capitale, Victoria, fosse la Torre di Londra. O, meglio una sua piccola riproduzione che sembrava piovuta al centro di una piazza della città. Lì affianco c’era un mercato africano di pesce e verdura e, poco più in là, un piccolo tempio induista con tanto di santoni. Sembrava che qualcuno avesse voluto concentrare i tre continenti nel giro di un paio di isolati.
Nelle spiagge, poi, incontravi a pochi metri di distanza donne velate – i turisti arabi erano tra i più numerosi – e biondissimi bambini scandinavi tutti nudi, in mezzo a ragazzi locali con i rasta o vestiti alla moda e a coppiette di tutto il mondo in viaggio di nozze. Una comitiva di indiani, un pomeriggio, mi ha chiesto di fare una foto con Piccolé. Presa un po’ alla sprovvista, ho risposto di sì. Ognuno di loro – erano una decina – ha voluto un sefie con la bambina, che si prestava divertita. Per loro, la famiglia “esotica” eravamo noi.
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